Ispirato all'omonima graphic novel di Kevin Grevioux, I, Frankenstein è un action fantasy impregnato di umori gotici, almeno per quanto riguarda il breve prologo e la descrizione di una metropoli contemporanea in cui campeggia una cattedrale dove è ubicato il quartier generale dei gargoyle. Dell'archetipico romanzo di Mary Shelley, questa tonante e pretestuosa variazione conserva soltanto il nodo filosofico dell'esperimento di laboratorio che soffre il peso di una mancata accettazione, prima da parte del padre-creatore e poi dell'umanità tutta. Alle movenze lente e tragiche del mostro classico si sostituiscono, allora, la sveltezza e la prestanza di un corpo sul quale il tempo non lascia segno, quasi imbattibile, capace di difendersi anche mediante una speciale tecnica di combattimento con i bastoni (come lasciar fuori le arti marziali?). Se la perfetta fisicità rende incredibile l'affermazione secondo cui sarebbe composto da "almeno una dozzina di corpi differenti", il nuovo Frankenstein risulta, invece, credibilissimo per un determinato target di spettatore: parliamo di ragazzini in cerca di percorsi eroici modulati sul continuo crossover tra fumetto, videogame e rimasticature letterarie oltreché ancora in grado di lasciar correre e sopportare frasi come "lasciatelo a me!" o "uccideteli tutti!".
Ad un apparato visivo non particolarmente innovativo, ma di pregio, sia per quanto riguarda la realizzazione degli effetti speciali sia per il concept visuale globale, coincide, dunque, un'organizzazione del materiale narrativo che scorre sui binari di una progressione puerile: due fazioni, il bene e il male (si parla di "ascendere al cielo" e di "discendere agli inferi") e, al centro, un personaggio, che umano non è, a fare da ago della bilancia. Possente eppure problematico, come sono gli ultimi supereroi del grande schermo, Aaron Eckhart dà a questa pellicola strettamente imparentata con la serie di Underworld (stessa produzione) quella credibilità che manca in altri analoghi titoli. Si poteva raccontare la stessa storia da un'angolazione più adulta per avvicinare un'altra fetta di spettatori, ma Stuart Beattie ha scelto di non farlo. Forse è stato un peccato.