Un'opera a cui manca solo il sedimento per essere 'maestoso', un titolo decurtato di un luogo geografico che identifica da solo l'origine, la caratteristica culturale e etnografica dell'identità in crisi del gigantesco paziente di Benicio Del Toro. Psicanalista transculturale, specializzato nell'elaborata cultura amerinda, il Georges Devereux di Mathieu Amalric avvia un'indagine che finisce per scavare una galleria parallela dentro le coscienze dei protagonisti, che avanzano a cadenza irregolare. La spedizione conosce allora tensioni, frizioni, corrispondenza, affinità, lacune e pienezze.
Versione postmoderna di Polanski e avatar sensibile dell'autore, Amalric traduce in parole il male invisibile del suo paziente, che converte le sue parole e le materializza in immagini che permettono allo spettatore di conoscere Jimmy Picard. E delle sue angosce, dei suoi fantasmi, delle sue emicranie, delle sue prove, dei suoi sguardi annebbiati, delle sue temperature elevate, dei suoi movimenti tellurici, si fa carico Benicio del Toro, incarnando qualcosa che non può essere interpretato, figuriamoci concluso. C'è qualcosa di inguaribile e guarito insieme nell'analisi di Desplechin, ci sono un indiano Pikuni e un ebreo ungherese, due popoli esiliati, due 'selvaggi' venuti dalle 'praterie' di due continenti, due sopravvissuti che hanno un nome segreto e hanno percorso le zone grigie e inquietanti della malattia, fraternizzando nella lingua di un Paese di finzione. Francese in America, Desplechin è l'uno e l'altro, il paziente e l'analista, il malato e il guaritore, che scopre lontano da casa la verità provvisoria e paradossale dell'analisi e del (suo) cinema: è la sperimentazione del dubbio ad aprirci al mondo e a restituirci la fiducia nel mondo.