Colto a metà fra le prediche di chi invoca l'evangelizzazione degli infedeli e condanna l'"eresia comunista" e i racconti del prete che, in biblioteca, gli racconta la rivoluzione pacifica di Don Milani, Guido si accorge di non condividere tutti i precetti a lui impartiti, di preferire l'uomo alle regole, e di non capire la disparità di trattamento riservata ai suoi più cari amici in seminario: Sandro, il cardiopatico figlio dell'avvocato benefattore della Chiesa, e Pugliese, il povero meridionale figlio di padre ignoto che il prefetto chiama regolarmente "bastardo".
Quello di Guido è un percorso verso la consapevolezza e verso una scelta finale preannunciata dalla prima scena, l'unica, insieme all'ultima, a colori. Il resto del film è narrato in un bianco e nero dalle ombre profonde, con grande rigore compositivo e grandissima attenzione ai dettagli. Il seminarista è stato girato in poche settimane ma è evidentemente il film della vita di Gabriele Cecconi, docente di linguaggio cinematografico a Prato (dove è ambientata la storia, con tanto di deliziosi accenti toscani) che ha all'attivo innumerevoli corti e mediometraggi. Per il suo debutto al lungometraggio Cecconi ha dovuto attendere più di vent'anni, ma è evidente che non è rimasto con le mani in mano: Il seminarista è un lavoro di lima e di cesello attento alla forma quanto ai contenuti.