Il film procede secondo una narrazione classica da grande cinema di guerra, alternando gli anni Ottanta agli anni Quaranta e immergendoci profondamente nell'atmosfera allucinata vissuta dai prigionieri di guerra durante il conflitto mondiale. I punti di riferimento cinematografici sono Il ponte sul fiume Kwai di David Lean - per difetto, perché quello raccontava una favoletta consolatoria, elduendo la realtà terribile del conflitto - e Furyo di Nagisa Oshima, assai simile invece nel raccontare il rapporto fra prigionieri inglesi e soldati giapponesi, nonché la crudeltà della detenzione.
La posta in gioco è la dignità umana, i temi sono il senso dell'onore, la fedeltà al proprio ruolo, l'orrore della guerra, il potere salvifico dell'amore. E la storia è raccontata in toni melodrammatici sottesi da una grande tensione morale e dotati di una forte capacità evocativa - della paura e dell'umiliazione - nella costruzione delle immagini di prigionia. Le scene di tortura sono quasi insopportabili, non in quanto eccessivamente esplicite, ma in quanto emotivamente dirompenti. Alla narrazione contribuisce in modo significativo l'accompagnamento sonoro, uno dei migliori visti nel cinema recente: mix suggestivo di rumori, silenzi, respiri, musiche, graffi radiofonici, fischi, sussurri e grida in lingue straniere, terrorizzanti nella loro indecifrabilità. Girato in gran parte nei luoghi in cui si è svolta la storia, e che trasudano ancora orrore e sofferenza, Le due vie del destino è una denuncia esplicita dell'inutilità crudele delle guerre e una parabola edificante (detto in senso non denigratorio) sulla capacità umana di resistere all'irresistibile e sulla volontà di rompere il silenzio su ciò di cui "nessuno parla".