Indubbiamente non è facile misurarsi con il lavoro di trasposizione, figuriamoci poi sceneggiare le parole di Mordecai Richler e il suo romanzo più celebre ("La versione di Barney"), pubblicato in Italia all'inizio degli anni zero. Ma forse valeva la pena provarci perché Barney Panofsky ha 'carattere' cinematografico e personalità impetuosa per soddisfare quel pubblico trasversale che ama la letteratura e il cinema e resiste alla banalità dei pregiudizi. Purtroppo però la traduzione questa volta non funziona e l'omonimo libro di Richler eccede la versione di Richard J. Lewis, rendendo la sua conversione mediale trascurabile.
La versione di Barney è un film 'gentile', scritto e pensato da gentili, goym (non ebrei) gli avrebbe probabilmente chiamati l'ingovernabile Panofsky, che nel romanzo omonimo si racconta senza misura e in prima persona. Il regista, impegnato un decennio sulla scena del crimine (CSI), rinuncia consapevolmente all'uso della voce fuori campo del narratore, che non sempre è segno di difficoltà narrativa, prendendo così le distanze dal protagonista e lasciando che sia l'intreccio a prevalere sul personaggio.
Smarcandosi dalla fedeltà e appagato dall'esaltazione del tradimento, Lewis preferisce una 'versione' conciliata e conciliante di Barney, che manca l'identità ebraica e l'umorismo yiddish di Richler. Preoccupato forse della 'diversità' di Panofsky il regista finisce per renderlo troppo uguale a troppi eroi da melodramma, perdendo la peculiarità di un buontempone disprezzato da rabbini e gentili, sempre pronto a sacrificare verità e relazioni per una buona battuta. Una battuta che veicola sempre sentimenti profondi e sfoga un'energia nervosa a lungo trattenuta. A incarnare meglio del protagonista Paul Giamatti la straordinarietà espressiva dello spirito yiddish è il padre di Dustin Hoffman, attore ebreo e per questo probabilmente emotivamente prossimo al Barney letterario e in grado di riconoscerne e impiegarne l'umorismo e la superiorità paranoide.