Questa straordinaria sequenza iniziale, incredibilmente efficace per i brividi e le sensazioni che è capace di evocare, ci introduce così in un mondo oscuro dove baluginano rimandi al cinema del passato e del presente, a un immaginario catastrofista, ma in fondo mai fuori moda. Come in un vecchio episodio di Ai confini della realtà, dove erano le leggende metropolitane e i grandi arcani della storia a dare avvio alla fantasia degli sceneggiatori, anche Vanishing prende le mosse da un mito popolare: quello di Roanoke, una colonia di pellegrini del North Carolina scomparsa senza lasciare alcuna traccia di sé intorno alla fine del XVI secolo. Da lì, lo script di Anthony Jaswinski fa collimare una notevole quantità di reminiscenze e di rimandi nei confronti delle pellicole e dei topoi più conosciuti del genere: dalla metropoli fantasma de L'ultimo uomo della Terra, all'assedio forzato dei film di Carpenter e Romero; dai segni naturistico-punitivi di E venne il giorno di Shyamalan, fino al barlume di umanesimo che risparmia le future generazioni come in The Road. Una geometria di citazioni più o meno esplicite che non si riserva anche dal solleticare il proprio dualismo fra luce e buio con una lettura metafilmica: non solo nel passaggio iniziale ambientato all'interno del multisala, ma anche attraverso qualche accenno al fatto che i sopravvissuti debbano mantenere la lucidità di pensarsi vivi ("Io esisto", ripete nella preghiera finale il ragazzino James), senza farsi distogliere dai richiami desideranti che le tenebre sono capaci di evocare.
Vanishing suggerisce quindi molti elementi di fascinazione. Perfino troppi, se si considera che non tutti vengono sfruttati a dovere e che alcuni (come la parte centrale dell'assedio) hanno eccessivo peso rispetto ad altri (il richiamo incantatore delle tenebre). Tuttavia, Brad Anderson sa farsi compositore ideale di questo puzzle distopico, ripetendo quel lavoro di riuso originale di materiali narrativi abusati già svolto più che discretamente in Session 9 e L'uomo senza sonno. La patina seppia e vagamente onirica delle immagini, caratteristica di tutti i suoi film, è quel leggero tocco d'autore che gli permette di poter orchestrare con un certo distacco la complessa sinfonia di citazioni e lavorare più proficuamente sui meccanismi suggestivi. L'effetto è quello di percepire una certa distanza dalle immagini, di viverle con la consapevolezza che si tratti di un prodotto immaginario eppure estremamente perturbante. Esattamente come la paura del buio.