La pars destruens ha allora il sopravvento e la mercificazione del corpo assume una connotazione assoluta. Gli ambienti sono squallidi, lugubri, semioscuri. Non c'è senso di colpa, non c'è malinconia ma la pellicola ne è pervasa. Nessuno attende l'amore. Nessuno rimpiange ciò che è perduto. L'ordine esterno è metodicamente distrutto in un individualismo aggressivo ed esasperato. Il desiderio ultimo diviene il silenzio (nella citazione ostinata di un verso 'Non avrei mai dovuto imparare a parlare'). Sion Sono porta alle estreme conseguenze il cinema di Mizoguchi che aveva affrontato il tema della soggezione della donna alle regole del pregiudizio e del potere e le sue protagonisti femminili sono dirette discendenti di O-Haru, la donna galante.
Mentre in Izumi agiscono pulsioni inconsce trasgressive che sfociano nell'immagine di uno specchio sul quale riflettere un'identità diversa, in Mitzuko non vi è nemmeno più senso di ripicca o rivalsa, ma la crudele constatazione dell'impossibilità dell'amore. Il suo prostituirsi non è ripiego, né trasgressione, ma scelta consapevole di palesare e vivere il lato oscuro, un compimento finale che esprime nei suoi amplessi grandguignoleschi, in risa isteriche e perverse, nell'indecente compiacimento di un'estrema lascivia o di pretesa aggressiva di un compenso. Sì, perché l'unica cosa che possiede valore, in un mondo dove la comunicazione è assente, è il corpo. La prestazione - cinica, indecente, sadica - ha un costo. La parola non è nulla se non diviene carne, se non diviene corpo. E, mentre il mondo inorridisce, recidendo ed estirpando il suo lato oscuro, il mistero rovesciato del verbum caro factum est, diviene la risposta nichilista all'alienazione.