Jones dimostra di sapere bene che la fantascienza è dentro la testa dello spettatore, il quale non ama le astronavi in sé ma quell'infinita e misteriosa desolazione degli spazi silenti dentro i quali esse si muovono, che costringe i personaggi ad andare alle radici del concetto di "umanità", rivedendo il rapporto che hanno con gli altri o con le macchine. Ed è proprio questa la cosa più piacevole di Moon: trovare che finalmente lo spazio torna ad essere non tanto un teatro d'azione e guerra ma l'ultimo grande luogo sconosciuto, l'unico nel quale sia ancora possibile immaginare o temere di poter trovare alieni a metà tra organico e inorganico, forze che materializzano i pensieri individuali o addirittura i confini della fisica e l'origine dell'uomo. Sulla loro Luna Duncan Jones e lo sceneggiatore Nathan Parker immaginano di trovare l'altro per eccellenza ovvero la propria copia esatta.
Forse però la freccia più affilata di Jones è la maniera con la quale gioca con le aspettative dello spettatore realizzando un film che non cita ma copia letteralmente molti elementi di classici come 2001: odissea nello spazio o Blade Runner. Jones ne replica i presupposti al fine di suscitare una reazione spontanea nello spettatore e poi tradirla. GERTY, il computer di bordo tuttofare dalla voce monocorde, non solo ricorda H.A.L. 9000 ma sembra seguirne il solco, almeno fino ad un certo punto, allo stesso modo le geometrie esagonali che compongono la base lunare, l'eccesso di bianco e nero, le tute, i caratteri delle scritte sugli schermi e tutta la tecnologia fatta di videotelefoni e pulsantini illuminati non sono in linea con quello che oggi al cinema immaginiamo per il nostro domani ma con quello che immaginavamo potesse essere il nostro futuro nell'era d'oro della fantascienza.